In questo regno sacro e di solenne silenzio, in cui luci e ombre si alternano in una danza perpetua, io porgo il mio saluto a te, caro visitatore. Animato da profonda gratitudine, ti do il benvenuto in questo umile rifugio dove ora giacciono le mie ossa.
Mentre ti trovi davanti a questa umile lapide, io, Salomone Marini, ti parlo dalle profondità del tempo. Seppure ormai da secoli percorro il sentiero in un altrove inaccessibile ai vivi, la mia essenza rimane intrecciata nei legami terreni e cerca conforto qui, tra queste pietre silenziose ma pervase da un amore perpetuo.
Tra queste mura, storie di vita, gioia, dolore e resistenza, si fondono con lo spirito dei nostri antenati, creando una memoria composta da uno splendido mosaico di ricordi. Questa terra sacra in cui il mio corpo trova il suo riposo eterno, infatti, è un luogo che custodisce le memorie di persone vissute in diverse epoche, ognuna delle quali ha fornito un apporto fondamentale alla folta e vivace comunità ebraica che nella città di Padova. Una comunità che ha trovato un terreno fertile per instaurare le proprie radici e nutrirle attraverso l’inesauribile linfa della fede.
L’epoca in cui sono esistito, nel grande affresco del tempo passato, è il diciassettesimo secolo. Un susseguirsi di decadi durante le quali la comunità ebraica padovana visse una situazione complessa e altalenante, influenzata sia dal mutato panorama politico, che dalle tensioni religiose dell'epoca.
Mentre alcuni periodi furono testimoni di una relativa tolleranza e di una presenza ebraica limitata, altri furono contrassegnati da misure discriminatorie e restrizioni sociali.
A quel tempo, tutti i membri della comunità ebraica di Padova vivevano confinati tra le mura del ghetto dal 1603. In quei giorni si respirava un'aria carica di diffidenza e sospetto nei confronti degli ebrei sefarditi, ma tali pregiudizi sono stati, ahimè, solo un pensiero lontano nella nebbia del tempo.
La formazione del ghetto, pur avendoci privato di alcune libertà, ebbe l’effetto positivo di rafforzare in noi la nostra identità di popolo, radicandolo in una territorialità e creando un’unità che avrebbe modellato la nostra comunità per le generazioni a venire.
I continui venti di cambiamento soffiarono con diverse intensità, provocando sia lievi brezze di mutamento, sia vere e proprie tempeste, portatrici di oscuri presagi. Durante i momenti di tumulto, noi ebrei di Padova trovammo conforto nella loro rinnovata devozione agli spazi condivisi e alle strutture sacre. Le sinagoghe, cuore spirituale della nostra comunità, hanno preso nuova vita.
La sinagoga di rito italiano, cercando uno spazio più ampio, trovò rifugio all'interno di un altro edificio, mentre nel 1617 gli ebrei sefarditi utilizzarono l'ambiente ormai svuotato per creare il proprio rifugio sacro. Così, in quello spazio, sorse un luogo di preghiera, gioia e condivisione, nel quale l’intera comunità poté trovare conforto e unione.
Ma nel mondo materiale, ogni cosa è destinata ad avere un inizio e una fine. Così fu anche per la nostra amata sinagoga, la cui vita fu troppo breve. Nonostante il vigore e la vitalità che lo nutriva questo magnifico santuario venne costretto ad affrontare una prova troppo dura e dovette perire alla follia dell’uomo, che tramutò l’odio in spietate fiamme. Fiamme che avvolsero la sinagoga tra le urla e le lacrime di tutta la comunità, mentre con gli occhi anneriti dal fumo nero lo vide perire, ridotto in cenere, nell'anno 1629.
Ulteriori misure discriminatorie furono introdotte nel 1633, quando le autorità veneziane vietarono agli ebrei di esercitare varie professioni, tra cui l'artigianato e il commercio al dettaglio.
Fu così che io, Salomone Marini, decisi di assumere l'incarico di rabbino dell'“Università Ebraica Portoghese di Padova”, iniziando a dedicare la totalità delle mie energie fisiche, mentali e spirituali nell’arduo compito di far risorgere la nostra sacra dimora. Con incrollabile determinazione, io ed altri membri della comunità abbiamo ricostruito la nostra sinagoga, riversando i nostri cuori e le nostre anime in ogni trave e pietra.
Nemmeno la decisione da parte delle autorità di ampliare i divieti per noi ebrei nel 1654 riuscì a scalfire i nostri animi, nonostante da un momento all’altro ci fosse stato vietato di praticare la medicina e il diritto, limitando così le nostre attività economiche e la mobilità sociale all'interno della città.
In quei momenti, l’unica bussola verso un futuro di speranza fu la nostra fede, che come un faro guidò le nostre mani mentre costruivamo di nuovo le nostre case, i nostri luoghi di culto e le nostre vite. Le cicatrici della distruzione furono cancellate, sostituite dallo splendore di un santuario che rifletteva il nostro spirito incrollabile.
Tuttavia, la mia parte in questa storia non finisce qui. Nell'anno 1653, io, a nome di tutta l'Università Ebraica, acquistai un pezzo di terreno che avrebbe ampliato i confini di questo sacro cimitero.
Questo atto, semplice nella sua essenza, descrive e racconta in modo profondo dell’unità del nostro popolo. Rivela che la solidarietà all’interno della nostra comunità, costruita sulla fede, sull’unità e sulla cooperazione attraverso opere di credito, trascendeva i confini dei diversi riti, cancellando le differenze date da posizioni di minoranza o maggioranza. Trasformammo ogni dubbio in legge, ogni legge in una domanda, ogni domanda in un confronto volto a rafforzare la nostra identità di popolo.
Ora, caro visitatore, mentre ti trovi qui davanti alla mia ultima dimora, sappi che all'interno di questi terreni sacri, le storie di innumerevoli individui si intrecciano con il tessuto vivo di questa città. Le loro risa, le loro lacrime, i loro sogni e le loro vite… le nostre vite, continuano a sussurrare attraverso i venti che danzano in questo luogo solenne di pace e sacralità.
Tornando a giacere nell’eterno silenzio, all’ombra dei secoli passati, io Salomone Marini, porgo a te il mio saluto, caro visitatore. Possa il mio ricordo essere per sempre una benedizione. Possa tu trarre ispirazione da questo luogo santo, ascoltare le nostre storie e custodirle nel cuore, per poi condividerne il senso profondo nel mondo dei vivi.